Recensione
Tommaso Chimenti•Corriere nazionale•01 August 2011
Amore, sensualità e il sottile fascino del sangue
RADICONDOLI – Un triangolo amoroso in due scene. In alto, sopra la terrazza con la valle cupa ad inseguire le ombre e le poche luci, il bianco dell’amata-amante, sotto, nelle tenebre, infognato nelle Scuderie di mattoni rossi, il fratello di lei, ugualmente preso ed affascinato dall’Essere supremo. Un triangolo a due lati dove è proprio quello mancante, il Conte “Vampiro”, ad essere determinante, a risultare vincente nelle sue apparizioni, a far da specchio alle bramosie e voglie ancestrali dei due congiunti di sangue. Il sangue elemento principe. Il testo di Andrea Nanni emana una carnalità piena, una visceralità profonda che contorce, arriva fin dentro il desiderio lussurioso, lo sciorina, lo declama, lo snocciola, lo declina in piccoli gangli, in felicità minute, in brandelli di illuminazione potente e tagliente fino ad aspettare impaziente la prossima venuta. Un amore preso prospetticamente da due punti di visione differente, il sopra candido con la fanciulla incantata (Emanuela Villagrossi che esprime una sensualità di passi ed accenni d’ironia leggeri trapuntati da una soffice voce calda e penetrante), il sotto nebuloso di candelabri accesi da clichè e fiammelle votive danzanti con l’amico del Diavolo in terra (Silvio Castiglioni dai canini aguzzi, perfetto nell’incarnare l’Uomo nero, nelle movenze minuziose, nelle ombre proiettate sul suo volto e cranio pulito, molto Gian Maria Volontè). Nella regia scarna di Giovanni Guerrieri dei Sacchi di Sabbia, che lascia spazio agli interpreti senza sovrabbondanze né inutili orpelli appesantenti, a terra sta il bastone-serpente, quasi da rabdomante, che li domina e li volge alla ricerca dell’estrema esperienza erotica. I due fratelli si votano al demonio perché non possono farne a meno, senza costrizioni, cercano l’oblio e le vie tortuose, il fango marcio, il noir imbastardente, lo sporco meticcio, il torbido dove impastare le mani, la faccia, la lingua. Chiamalo amore, perché “morire è contronatura”. Nelle loro parole tutta l’ossessione lucida che si trasforma in felice dipendenza romantica, il dare la vita, la carne, il sangue, per ricevere il dono delle vita vera, in una nuova blasfema rinascita dello spirito e della carne. Che cos’è in definitiva il morso sul collo del vampiro se non la penetrazione nelle carni delle fanciulle, col sangue a sottolineare il passaggio tra l’infanzia e l’età adulta, quella minima sofferenza e dolore per sancire la frontiera, il Rubicone, il fossato passato e che mai più potrà essere ripercorso all’inverso. I Fratelli (potrebbero per certi versi ricordare quelli della “Trilogia della città di K” della Kristof) rifuggono la noia dell’esistenza accasciandosi morbosi nella seduzione passionale, nei sensi offuscati e sublimi e lascivi che il Vampiro, che succhia ma che anche rimette in circolo, emana prepotenti. Il piacere che dona il Satiro porta sì alla rovina, ma è un miele dolcissimo ed un fiele decadente impossibile da abbandonare se provato almeno una volta. Togliendo la vita, concede nuovamente un’altra vita, meno consona, meno borghese, più vera, intima come un taglio delle vene, pulsante come un’emorragia, presente come il rosso.