Recensione

Franco CordelliCorriere della Sera30 March 2008

Il prete e la lavandaia suicida

Casa d'altri di D'Arzo/Castiglioni-Guerrieri Castello Pasquini di Castiglioncello

Per merito di Giovanni Guerrieri, regista, e di Silvio Castiglioni, ideatore e interprete dello spettacolo, mi sono convertito a Casa d’altri. Ritenevo che il debito stilistico di Silvio D’Arzo nei confronti di Vittorini e Pavese fosse ingente. Troppo vistoso. Non mi accorgevo di cosa si nascondesse sotto quella voce presa in prestito. Non capivo che i prestiti possono fruttare e tramutarsi in una nuova ricchezza. Quando nel 1954 Alessandro Blasetti trasse dal racconto un episodio del film Tempi nostri, D’Arzo non c’era più. Nato nel 1920, era morto a trentadue anni. Il prete aveva la faccia di Michel Simon, la lavandaia era Sylvie. Nello spettacolo di Guerrieri/Castiglioni, una coppia che ritrovo dopo Viaggio in Armenia di Mandel’stam, Castiglioni è l’uno e l’altra, dando luogo, nello scambio delle loro voci, a uno degli esiti più alti del nostro teatro di narrazione - per intelligenza e per intensità. In Casa d’altri (che nel testo è, più ampiamente, o metafisicamente, «cosa d’altri») siamo a Montelice, un paese dell’Appennino tosco-emiliano, «sette case addossate e nient’altro: più due strade di sassi; un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale e montagne fin quanto ne vuoi». L’anziano parroco riceve due visite. Prima quella di un prete diciottenne, la cui apparizione sembra scuoterlo da un torpore antico. Poi quella di Zelinda Icci, un po’più di sessant’anni, che esita a rivolgergli la sua richiesta: una specie di dispensa. Ella vuole «finire prima»; in altre parole, per l’insostenibilità della sua vita (o della vita), vuole uccidersi. Tra il prete e la lavandaia, nel freddo dell’autunno, vi saranno quattro incontri. Per due volte il prete cerca la vecchia Zelinda per farsi dire ciò che lei non aveva avuto il coraggio di chiedere. Quando si parleranno di nuovo (ora è lui a cercare lei), il prete non potrà che constatare il proprio silenzio, la mancanza d’amore. Per Giorgio Bassani, che pubblicò il racconto nel 1952, il paesaggio di Casa d’altri è d’una «solennità dolce e spoglia, da fondo-oro. La sua prosa intensamente lirica, contesta di elementi decasillabici, ha un ritmo unico». Ma non è una questione di paesaggio, per quanto cruciale esso sia. Né di prosa lirica, che era la mia pietra d’inciampo. Castiglioni scarnifica ulteriormente questa prosa, la priva, appunto, del suo lirismo e ne mostra, al di là degli accenti invece colloquiali, la durezza di fondo, l’immedicabile ferita che essa apre in quel desolato paesaggio. È dietro l’apparenza realistica che si vede quanto vi sia di allegorico, una allegoria della natività (come irruzione della consapevolezza). Non è, quel giovane pretino, un angelo che annuncia l’evento? Ma non è il prete che definisce se stesso un Falstaff (D’Arzo era un accanito lettore di Shakespeare) il dio nascosto, il dio che non risponde? Egli è la regola, la natura - è l’una che s’identifica nell’altra. Il prete è ciò che sovrasta - di fronte a cui l’essere umano non è che una povera lavandaia. In termini realistici, il prete avrebbe dovuto capire quale male affliggeva Zelinda. In termini allegorici, egli è il rifiuto di capire; poi dell’inadeguatezza; poi del voler capire a tutti i costi; infine, solo perché non capisce, della degradazione del mistero a segreto. È così che dio si fa uomo. Questa attrazione di anime gemelle e opposte, Castiglioni la rende visibile attestandosi in alto, dietro una interminabile e nera tonaca; poi spogliandosene, scendendo a terra, da quaggiù rivelando quanto misero e nobile sia il nostro mistero.