Recensione
Bernadette Majorana•01 June 2011
Impressioni di uno spettatore
La storia è quella, nota, del barbiere Gian Giacomo Mora, condannato per un delitto atroce, per avere propagato la peste nella Milano estiva del 1630. Per un delitto mai commesso.
Una diceria, cosa detta e ridetta, affidata soltanto alla parola, parola irresponsabile eppure efficacissima nell’atto stesso del suo farsi, di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, di pagina in pagina. Veritiera o calunniosa.
Dice, in scena, l’attore; e pare che ri-dica, che ripeta un testo già detto, senza scostarsi da quanto fissato nel tempo. Come una lettura, come una favola, come un rosario. Come una diceria. Recitando: re-citare, fare l’appello delle persone citate a testimoniare in tribunale. Siamo chiamati, dunque. E siamo presenti.
Lavora con la memoria (non col ricordo: al principio pare che il cuore non c’entri); e ha chi ascolta l’espressione vocale della sua memoria, e la sorregge, perché è fallibile. È una donna ad ascoltarlo, silenziosamente, devotamente quasi, gli occhi chiusi per escludere da sé tutto quanto non sia quel suono nello spazio, quelle parole – ma proprio quelle – note e arcinote, sempre le stesse. Per misurarne l’efficacia, la coerenza, la potenza. Medica compagna, gli offre ogni tanto una parola a fior di labbra, lì dove la parola manca, perché egli non sia solo in quell’eterna ripetezione. Seduti distanti su un grande divano, lei semisdraiata, immobile, presente; lui ben dritto, le gambe accavallate, teso nella ripetizione, un libro tra le mani guantate, innaturali. Usciranno da quell’interno domestico senz’aria e senza luce, ma pure senza mestizia, vivo soltanto di piccoli rumori, denso di mobili e oggetti, provvisori forse, dimenticati, affastellati, ordinati o magari disordinati dal tempo; spazio senza centro, latente; specie di soffitta diventata casa per quei due, come fossero là da sempre e per sempre a ripetere quella storia: ne usciranno? E per fare che? Si preparano a ferire, a colpire chi già è una vittima; o sono là per dargli consolazione, mostrandogli con quel rammemorare paziente che non sarà dimenticato, che essi sempre ne tramanderanno la storia, che tutto quel rammemorare e fissare e ripassare è per lui, è per noi? Chi sono? I carnefici di lui o i suoi compagni?
Dei due, quello che parla, parla di due uomini, prima di uno e poi di un altro. Parla di fatti tremendi. Ne dice come di cosa lontana, chiusa, senza speranza. Dice letteralmente il testo famoso che Manzoni mette a chiusura dei Promessi sposi, dopo le nozze dei due giovani ai quali la vita ha insegnato più di quanto non intendessero imparare; e in cui scrive degli accadimenti milanesi del 1630 a parziale correzione di quello che già aveva osservato al riguardo Pietro Verri. È un monito per ogni lettore, perché veda la mistificazione tramandata dal Senato milanese attraverso la columnam quae vocetur infamis, eretta a Milano in Via della Vetra a memoria æterna della malvagità dei colpevoli. I due meschini: oltre al Mora, la cui bottega sorgeva in quel sito, Gugliemo Piazza, commissario di sanità e suo complice, condannati a morire mediante tortura («stretti da tenaglie incandescenti, mutilati della mano destra, fracassate le ossa a una una, attorcigliati alla ruota, dopo sei ore sgozzati, bruciati e poi, perché di uomini tanto scellerati non avanzasse niente, confiscati i beni, le ceneri disperse nel canale. Inoltre, il Senato milanese diede ordine che a imperitura memoria del fatto fosse rasa al suolo e mai più ricostruita la bottega dove il crimine fu ordito e sulle macerie fosse eretta una colonna da proclamare infame»).
L’attore parla dentro un microfono. È un processo verbale riletto pubblicamente perché tutti possano sapere? Perché noi possiamo sapere? Così l’amplificazione, l’artificio fonico. E così i guanti, perché possiamo interrogarci e non trovare risposta. Così pure l’accento romagnolo, imperfetto, niente affatto forbito, anzi un poco sporco. Parlata verace, che ci mette in sospetto di verità.
Un’arringa lungamente preparata forse. Il vecchio avvocato di certi grandi film giudiziari degli anni cinquanta (vecchio e abitudinario come Charles Laughton in Testimone d’accusa di Billy Wilder, 1957). Preparata l’arringa, la si prova e riprova davanti a persona fidata, cara. Dentro un universo domestico, quasi intimo. Compiendo azioni note e sicure, sicure perché ossessive, rituali, per fissare l’attenzione sulle parole separando la mente dal corpo. Un incantamento di gesti che libera la voce e l’accorda non col pensiero, ma con i suoni. Come cantando, come una formula, come certe litanie. Azioni precise, esse pure ben collaudate, sapientemente ripetute, che impegnano il corpo, le mani, gli occhi, la postura e così aiutano a formare la parola, esatta.
E lo spettatore sta lì. Lui pure aiutato nell’ascolto e nell’attenzione da quella incoerenza tra detto e fatto, tra dire e farsi.
Un ascolto disturbato, uno spazio disturbato. Una domesticità turbata eppure accettata, l’unica possibile, pare, per coloro che la abitano. La parola ripete, recita. Anche gli oggetti ripetono: il ventilatore gira e le pagine di un libro si sollevano pazienti sotto l’andirivieni artificioso del vento. Intanto, rumori curiosi, irriconoscibili, che paiono lasciare del tutto indifferenti quei due sulla scena. Per lo spettatore, una sollecitazione percettiva disorientante, che lo obbliga a stare instabile su un bilico di sensazioni divergenti. Un’allerta quasi insopportabile. Una distrazione dalle parole, le parole difficili che siamo intenti ad ascoltare – l’attesa che quel rumore ritorni o smetta, finalmente. Una distrazione che però è anche una specie di pungolo, che eccita l’orecchio e che invece di ottunderne la capacità di ascolto, quasi quasi la affina; e ti accorgi che anche la concentrazione dello sguardo parallelamente aumenta. Rumori la cui provenienza è ignota, la cui natura è ignota. La rivelazione è tardiva, finale, e solo all’apparenza ti conforta.
Infine leggono, come quando si legge il Passio, le parti distribuite nel dialogo come sono distribuite le colpe e il dolore: lui pare che dica la parte della vittima che va al sacrificio, la parte di Gesù.
E poi, altrove, una pace improvvisa, una quotidiana carezza, festosa. Un presente giudizioso. Che è? Chi sono? La morale della storia. Manzoni è ancora lì, anche in quello. E noi dove siamo a quel punto. Chi siamo?
Tutto quel ricordare è una memoria che ci viene consegnata, attori e spettatori. È un’accusa contro chi ha accusato e condannato Gian Giacomo Mora (i giudici, la gente, noi pure) ed è un’assunzione di responsabilità per la colpa commessa con quella condanna. E ricordando, colpa e innocenza si materializzano; recitando, gli attori se ne fanno carico, espiano quell’immenso male, penitenti sulla scena e devoti. E noi testimoni, disturbati e toccati da tanto dolore, ci avviciniamo a quell’infamia e, alzandoci per andare via, quasi ci pare di averla finalmente capita e respinta.